Opere di questo autore


Giulio Aristide Sartorio

Sartorio Giulio Aristide

Roma 1860 / Roma 1932

Pittore, Scultore, Incisore, Illustratore
Biografia

da A. M. Comanducci ediz 1962
Nato a Roma l'11 febbraio 1860, ivi morì il 3 ottobre 1932. Fu il rampollo di una famiglia di artisti (scultore era il nonno Girolamo Sartorio, e scultore pittore il padre Raffaele Sartorio). Apprese dal padre i primi rudimenti del disegno, ma volle presto affrancarsi da ogni influenza familiare perchè il suo temperamento potesse rafforzarsi, e perfezionarsi la sua tecnica indirizzando il tirocinio artistico allo studio minuzioso e severo degli affreschi, dei quadri, dei mosaici e delle statue dei Musei romani e delle Basiliche. Rilevò dalle pitture e dalle sculture antiche, copiando ed imitando, gli insegnamenti tradizionali del disegno, della coloritura e della composizione con sempre maggiori progressi ed intensità critica ed interpretativa. Ebbe una gioventù fervorosa di tentativi e di esperienze nella Roma ancora perplessa del decennio dall'ottanta al novanta, epoca di assestamenti e di entusiasmi, di battaglie politiche e artistiche che si pronunziavano e si dibattevano tra i partiti, i gruppi le scuole e le tendenze. A quel tempo frequentò i cenacoli letterari, e iniziò un'attività aristocratica di scrittore con prose critiche e narrative che pubblicò su giornali e riviste. Amico di Gabriele d'Annunzio, disegnò le tavole e i fregi del poema «Isotta Gottadauro» e con lui cooperò alla fondazione di un grande giornale illustrato, uno dei primi fatti sull'esempio dei grandi «magazines» stranieri, che ebbe effimera vita. La prima maniera del Sartorio, alcuni quadri di genere e d'ambiente settecentesco, s'ispirava al gusto di Mariano Fortuny y Marsal. Ma presto rivelò una spiccata personalità col quadro "Malaria", esposto a Roma nel 1882, che lo segnalò all'attenzione della critica e del pubblico. Nel 1889 si recò a Parigi, insieme al già noto e discusso Francesco Paolo Michetti. Quivi espose "I figli di Caino", uno dei quadri che suscitarono più eco in quella stagione artistica; esso diede campo alla critica francese di esprimere un giudizio schietto e lusinghiero sulle qualità del giovine pittore italiano. Dal 1895 al 1900; visse un lustro di intensa laboriosità: accolse l'invito del Granduca Carlo Alessandro di Sassonia Weimar, e fu insegnante all'Accademia di Weimar; proseguì nella sua opera di pittore, di critico e di narratore; dipinse il celebre dittico "La Gorgone e gli Eroi" e "Diana d'Efeso e gli schiavi", esposto all'Internazionale Veneziana del 1897, ora alla Galleria d'Arte Moderna di Roma. Nel decennio successivo al suo ritorno da Weimar oltre agli studi; e ai disegni di animali e di paesaggi sullo sfondo della Campagna romana e delle Paludi Pontine e a molte tele che rivelavano la sua rara maestria nel rappresentare e nel comporre la vigorosità del nudo, il Sartorio portò a termine due imprese grandiose: i fregi allegorici in chiaroscuro per la Biennale di Venezia e quelli per la nuova aula di Montecitorio, dove rappresentò la "Storia d'Italia dai Comuni al Risorgimento". Questi lavori di alto impegno e di profondo significato dimostrano il suo magistero insigne e la sua rifinita abilità nell'ammassare armonicamente gruppi e folle con fantasia ed equilibrio. Dopo questi lavori il suo ideale d'arte subì una trasformazione. La ricerca e lo sforzo come egli stesso scrisse si volsero a cogliere e a riprodurre gli uomini e le bestie nella loro manifestazione di animalità vitale. I paesaggi della Campagna romana, ch'egli dipingeva a tempera sopra una tela finissima, segnarono il culmine della fama e della fortuna del Sartorio. Ottanta di queste tempere figurarono, nel 1914, all'Internazionale di Venezia, dove il Sartorio fu assiduo espositore. La sua produzione artistica è imponente anche come numero. Nel 1933 nella Galleria Borghese a Roma fu inaugurata da Guglielmo Marconi una mostra postuma dove erano raccolte 184 sue opere che illustravano anno per anno l'attività multiforme di questo artista il quale non ebbe mai soste per oltre mezzo secolo, cioè dal 1876 fino al giorno della morte, che gli interruppe la pittura dei cartoni per la decorazione della risorta Cattedrale di Messina a cui si dedicava come conforto degli ultimi anni straziati dal male. Fu anche un valoroso se pur sfortunato volontario di guerra. Ferito, fatto prigioniero a Lucinico (alla cui chiesa la vedova donò nel 1933 il grande quadro "Cristo benedicente l'Umanità") fu liberato nel 1917. Nel 1929 fu nominato Accademico d'Italia e poi eletto Vice Presidente dell'Istituto insediato in quella Villa della Farnesina che il Sartorio aveva contribuito a salvare dal decadimento e dallo squallore, dirigendo i lavori di restauro e di ripristino. Giulio Aristide Sartorio è uno dei pittori più largamente rappresentati nelle principali Gallerie pubbliche italiane e straniere e in numerose raccolte private. A Milano alla Galleria d'Arte Moderna esistono numerosi pastelli illustranti la guerra 1915-1918.
 
 
da Le Biennali di Venezia - Esposizione 1895, 1897 e 1901
Nato a Roma nel 1861, vi dimora.
Fin da giovanetto fu avviato all'Arte dagli insegnamenti e dai consigli del padre e del nonno.
Si perfezionò in Inghilterra, ove studiò a fondo il movimento prerafaellista, sopratutto l'opera poetica e pittorica di Dante Gabriel Rossetti.
È tra i collaboratori artistici del "Convito".
Tratta vigorosamente il nudo. Negli ultimi tempi il suo ideale d'arte subì una trasformazione.
La sua ricerca il suo sforzo è (com'egli ci scrive) di cogliere gli uomini e le bestie nella loro manifestazione di animalità vitale.
La sua reputazione artistica cominciò col quadro «I figli di Caino» (Parigi 1889).
Oggi è professore nella Scuola di Belle Arti di Weimar (1897).
Nel 1897 espose a Venezia «La Gorgone» e «La Diana d'Efeso», dittico grandioso che fu acquistato dal Ministero della P. I. per la Galleria Nazionale di Roma.
Si presenta oggi (1901) per la prima volta come scultore.


da Le Biennali di Venezia - Esposizione 1914
di Diego Angeli
Quando nel 1894, in una Mostra della Società "In Arte Libertas", Aristide Sartorio espose tutta una Sala dei suoi pastelli della Campagna Romana, per molti fu una rivelazione.
Egli era stato fino allora, il pittore ammirato e ricercato di un certo genere di quadri che - pur conservando una nota schiettamente personale» derivavano sempre una traccia profonda di quello spagolismo che imperversò sui pittori romani durante il primo ventennio della Capitale.
Di famiglia d'artisti suo padre e suo, nonno erano stati scultori e di quest'ultimo si conservano ancora nelle Chiese di Roma opere non indegne della buona tradizione - ancora giovinetto aveva assistito all'apoteosi che gli artisti romani avevano fatto alla salma di Mariano Fortuny y Marsal e si era esaltato a quella "Juana la loca" di Moreno Carbonero, che parve ai pigri pittori di quelli anni l'ultima parola della perfezione.
E aveva dipinto come quelli artisti, cercando di esplicare, nei facili lenocinii della loro arte manierata, la naturale eleganza del suo temperamento.
Aveva cercato e vi era riuscito, pur conservando nei suoi acquarelli e nelle sue tele quel tanto di più pensoso e di più robusto che gli veniva dalla tradizione classica del padre e dell'avo.
Tanto che nella prima grande Mostra internazionale del 1883 aveva esposto un quadro, dove a traverso il bitume scolastico e un certo abuso di particolari messi di moda dagli artisti spagnuoli di quel tempi vi era già la rivelazione di un temperamento personale e di un sentimento proprio.
Quel quadro s'intitolava «Dum Romae consulitur, morbus imperat» e rappresentava una ciociara piangente sul figlio morto di malaria, sotto un cielo basso e in una landa sconsolata della campagna romana.
Il dissidio fra la e tecnica e il soggetto era visibile; ma attraverso l'una e l'altro era già la rivelazione di quella personalità che doveva condurlo alla geniale interpretazione del vero, che doveva fare di lui uno dei più profondi illustratori dell'Agro.
Si può anzi dire che nello studio della nostra Campagna egli abbia trovato gli elementi della sua liberazione.
Quando più ancora il suo spirito era soggiogato dalle formule fortuniane, amava «inebriarsi di sole» - mi si conceda l'espressione cercava lungo le rovine della via Appia o fra le piccole chiese della Porta Latina, come un diversivo felice ai velluti troppo ricchi e alle corazze troppo ageminate che ingombravano allora gli studii dei pittori.
Così che quando un piccolo nucleo di artisti ribelli, stringendosi intorno al vecchio e glorioso Nino Costa, volle tentare di liberare l'arte romana dal gretto commercialismo che la soffocava, egli non ebbe da fare altro che resuscitare in sè le antiche sensazioni giovanili per purificarsi da tutto quello che di moda e di cifra si era venuto agglomerando in lui.
Bisogna dire che il pubblico romano incoraggiò largamente questa sua nuova maniera.
E dico «nuova maniera» e non convenzione, perché in fondo egli aveva in sè i germi della magnifica fioritura, germi che rimasti soffocati dalle sterpaglie dello spagnolismo, ritrovavano ora la loro libera espansione al primo raggio del sole romano.
Aristide Sartorio deve molto alla Campagna romana: ma egli ha cercato sempre di pagare questo suo debito di riconoscenza, illustrando - come pochi hanno fatto - il luogo unico al mondo che gli aveva dato due volte la vita.
Perché la Campagna romana di Aristide Sartorio è veramente quella che i nostri occhi hanno visto e i nostri spiriti ammirato.
Non ha il romanticismo malinconico a traverso il quale la videro i pittori francesi del 1830, nè la durezza scolastica dei classicizzanti tedeschi.
Partendo dal principio che ogni angolo dell'Agro forma di per se stesso una ammirevole composizione, egli non ha cercato i cosi detti «punti di vista» e il raggruppamento di certi elementi cari ai suoi antecessori.
Una scalarola che traversa la «Marrana» gorgogliante fra le mazze sorde e le cannucce, un monticello solitario che serve come di piedistallo a un taciturno pastore, una plaga arata dalle lunghe file dei candidi buoi, un branco di pecore che segna quasi la curva di un avvallamento, le mille insenature del fiume biancheggianti di vetrici sulla biondezza della sabbia d'oro, sono per lui visioni altrettanto grandi e altrettanto belle - se forse non più - di quello che erano un tempo i monumenti famosi e i ruderi illustri, intorno ai quali si erano esercitate le tavolozze dei paesaggisti romani.
Facendoci vedere la Campagna qual è veramente, senza abbellimenti retorici e senza lenocini romantici, egli ha rivelato agli occhi meno esercitati all'osservazione, quello che tutti avevano visto e forse inconsciamente ammirato, senza avere avuto la possibilità d'estrinsecare le varie sensazioni prodotte da quella vista.
Di qui l'ammirazione universale che i paesaggi romani di Aristide Sartorio hanno sempre destato nella folla: ammirazione che non può essere paragonata se non a quella che suscita sempre la vista di un bel paese anche negli animi meno poetici e negli spiriti meno contemplativi. Ed è questa la vera forza di Aristide Sartorio.
Con l'intuito preciso, che è oramai un istinto in lui, egli ritorna allo studio della Campagna romana, ogni qual volta l'intensità di un lavoro particolare sembrerebbe dovernelo avere allontanato per sempre.
Alla visione dell'Agro egli è ritornato dopo gli anni trascorsi nell'insegnamento all'Accademia di Weimar, e ritorna ora dopo il lavoro immane del fregio per l'Aula del Parlamento.
E poiché vi ritorna sempre con la trepidanza e la timidezza di un innamorato, l'anima sua vibra con una sincerità che dà alla nuova opera una nuova giovinezza.
È questo il segreto maggiore dell'arte di Aristide Sartorio: un segreto che lascia un impronta particolare nei suoi pastelli dell'Agro e che lo farà vivere di una vita a parte nella sua opera considerevole e trionfale.

Bibliografia

A.M. Comanducci - Pittori italiani dell'Ottocento - Milano 1934
A.M. Comanducci - Dizionario illustrato pittori e incisori italiani moderni - II ediz. Milano 1945
A.M. Comanducci - Dizionario illustrato pittori e incisori italiani moderni e contemporanei - III ediz. Milano 1962
L. Servolini - Dizionario illustrato incisori italiani moderni e contemporanei - Milano 1955
Servolini - Problemi e aspetti dell'incisione - Forlì  1939

Thieme Becker  - Kunstlerlex - 1935

A. Munoz - Giulio Aristide Sartorio - Roma 1909

L. Serra - Giulio Aristide Sartorio -  Torino 1914

F. Sapori - Giulio Aristide Sartorio -  Torino 1916

Catalogo Personale Galleria Pesaro - Milano 1921

Nuova Antologia - Roma 1907

Il Secolo XX - 1907

Illustrazione italiana - 1908

Galletti e Camesasca - Enciclopedia della pittura italiana

Ojetti - Ritratti di artisti italiani

 

Catalogo I Esposizione Internazionale d'arte della Città di Venezia - 1895

Catalogo II Esposizione Internazionale d'arte della Città di Venezia - 1897
Catalogo IV Esposizione Internazionale d'arte della Città di Venezia - 1901

Catalogo XI Esposizione Internazionale d'arte della Città di Venezia - 1914

 

Opere

Butteri 1895 - Galleria di Arte Moderna di Genova

Sirena o abisso verde - Galleria d'Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza

Pesca del tonno in Sardegna - Galleria d'Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza

Paesaggio sul lago - Galleria d'Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza

Cristo deriso - Galleria d'Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza

Andata al calvario - Galleria d'Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza

The Mascque of Anarchy by Shelley - Galleria d'Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza

Lettura - Galleria d'Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza

 



 

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